Mugnone, che è un tipo sensibile e non molto combattivo, si sente venir meno. Ha una paura dell'accidente. In effetti, si stanno vivendo momenti eccezionali. La vita dell'Italia è piena di sussulti. Umberto I è stato più volte fatto oggetto di attentati (l'ultimo è del 1897), il parlamento è sciolto per decreto reale dal giugno del 1899. E quella sera, a teatro, oltre alla presenza della augusta sovrana, c'è il presidente del Consiglio Pelloux, il ministro dell'Istruzione Baccelli, tutta la più selezionata nobiltà romana. E poi gli inviati dei principali giornali di tutto il mondo. E fra i musicisti fanno spicco Mascagni, Franchetti, Cilea, Marchetti. Quale migliore occasione per suscitare uno scandalo, per fare scalpore? Non succederà nulla di grave.
È vero, la rappresentazione inizia male, fra zittii e mormorii della parte avversa. E sono così insistenti e forti che Mugnone, già terrorizzato dalle disposizioni ricevute in camerino, abbandona il podio e sospende la recita. Dopo un po', calmatesi le acque, si riprende. Puccini è nervosissimo e pallido come un cencio Non sa affrontare situazioni del genere, sono fuori dalla sua comprensione, non ha grinta. Ma poi, via via, si rinfranca, il pubblico si scalda, batte le mani, applaude e chiede il bis della romanza «Vissi d'arte». Anche «E lucean le stelle» viene bissata. La melodia di Puccini si dimostra, ancora una volta, infallibile. È come una sorta di stregoneria. Alla fine ci sono sette chiamate, tre delle quali per il solo autore.
I giudizi della stampa, al solito, sono un po' vaghi: non stroncano e non esaltano. Alessandro Parisotti, sul «Popolo Romano», dopo una minuziosa analisi dell'opera, così conclude: «Tosca è una lotta ai ferri corti fra le situazioni eminentemente passionali e i colori della tavolozza melodica. Non sempre la vittoria rimane alla tavolozza.» Il che è un bel masticare aria fritta. Per il critico del «Messaggero»: «C'è la vigoria dell'istrumentazione, la virtù del chiaroscuro; c'è soprattutto il suo stile che affascina e che conquide; ma non c'è l'intima fusione, la corrispondenza esatta fra amore e musica.» Per l' «Avanti!», senza menare troppo il cane per l'aia: «Tosca non è adatta al temperamento di Puccini.» E il Colombani sul «Corriere della Sera», dopo aver paragonato quest'opera alla «Bohème», conclude: «Nella Tosca tutto è nero, tragico, terribile [...] e meno vario, meno appariscente, meno leggero.»
Il giorno dopo la prima di Tosca, Luigi Illica invia una lettera all'editore, nella quale attacca a fondo Puccini, tacciandolo di autoritarismo e affermando che «ha mancato di rispetto al lavoro degli umili suoi collaboratori». Puccini pensa subito a un mezzo fallimento. Ma si sbaglia. Così come si sono sbagliati i critici con le loro riserve. Ancora una volta il musicista ha trovato la chiave giusta per conquistare il pubblico. Forse retorica, ma giusta. Al Costanzi si danno più di venti repliche a teatro sempre esaurito. Nel corso dell'anno l'opera verrà data in moltissimi teatri italiani e verrà rappresentata al Colon di Buenos Aires e poi al Covent Garden di Londra. A un successo segue un altro successo. Ovunque applausi e osanna.
(Giusepe TAROZZI, «Puccini. La fine del belcanto», Milano, Bompiani, 1972, pp. 69-71)