Primo di sette figli del conte Monaldo Leopardi e di Adelaide dei Marchesi Antici, mostra ben presto straordinaria intelligenza e voglia di sapere.
La grande biblioteca di casa Leopardi, contenente migliaia di libri collezionati dal padre, è felice rifugio del giovane Giacomo. A soli tredici anni si avventura in letture greche, francesi e inglesi.
Il suo desiderio di conoscenza è così prorompente che, oltre alle lezioni sotto la guida del padre e del precettore Don Sebastiano Sanchini, si applica, da solo, in maniera “matta e disperatissima” nelle più svariate materie per ampliare il proprio universo
Una visita della cugina Geltrude, moglie del conte Giovanni Giuseppe Lazzari, nel dicembre del 1817, è causa d’innamoramento, il primo, di Giacomo, che scrive nel Diario del primo amore:
“Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedí, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente più tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane. Quella sera la vidi, e non mi dispiacque, ma le ebbi a dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il venerdì le dissi freddamente due parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto più tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura. […] E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare.
[…] E così il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa disperare il sentir discorsi allegri, e in genere tacendo sempre, sfuggo quanto più posso il sentir parlare, massime negli accessi di quei pensieri. A petto ai quali ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzavo, anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la gloria. E sono svogliatissimo al cibo, la qual cosa noto come non ordinaria in me né anche nelle maggiori angosce, e però indizio di vero turbamento. Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo. Benché questo presente (il quale, come ieri sera quasi subito dopo il giuocare, pensai, probabilmente è nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son certo che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo non so bene se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la saviezza mi fa dire a me stesso di sì. Volendo pur dare qualche alleggiamento al mio cuore, e non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere, né potendo oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo restio, ho scritto queste righe, anche ad oggetto di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel mio cuore di questa sovrana passione”.
La Domenica l4 di Decembre l8l7.
Nel 1819 compone gli idilli Alla luna e L’infinito, considerato, quest’ultimo, la massima espressione della poesia leopardiana.
Nello stesso anno medita di lasciare la casa paterna per andare in ambienti culturalmente più ricchi e aperti, ma, contrastato dal padre si vede costretto a rinunciare alla partenza.
La delusione non ferma però la sua produzione letteraria, compone infatti numerosi idilli e canzoni. In questo periodo vedono la luce anche le sue prime operette satiriche.
Nel 1822 Giacomo lascia finalmente Recanati e si reca a Roma ospite dello zio materno. Rimane deluso: la capitale non ha il livello culturale che si aspettava, tranne che per qualche eccezione. Lo colpiscono la corruzione della Curia e l’abbondare di prostitute. La città gli appare squallida, frivola, non è certo la Roma che aveva idealizzato leggendo i classici. Lo emoziona invece il sepolcro del Tasso. Tanto, che lo renderà protagonista in una delle Operette morali.
Nell’aprile del 1823 Giacomo torna con piacere a Recanati e compone Alla sua donna.
Nel 1824 compone la maggior parte delle Operette morali, il libro “più caro dei miei occhi” come lo definirà lo stesso Leopardi, una raccolta di prose satiriche, fantastiche e filosofiche.
Nel 1825 si reca a Bologna e poi a Milano, dove collabora con l’editore Stella per il quale cura il commento alle rime del Petrarca, esegue traduzioni dal greco e compila due antologie di letteratura italiana: poesie e prose. È poi ancora a Bologna, poi a Firenze dove incontra il gruppo di letterati del Circolo Vieusseux, G. Battista Niccolini, Pietro Colletta, Niccolò Tommaseo, Antonio Ranieri e Alessandro Manzoni. E ancora a Pisa ove rimane per circa un anno, rasserenato per l’accoglienza che gli riservano i pisani ed entusiasta della città. È proprio qui che nascono opere importanti come Scherzo, Il Risorgimento e A Silvia. Da Pisa a Firenze e poi, nel 1828, nuovamente a Recanati.
È un periodo fecondo di opere: Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Canto notturno, Il sabato del villaggio.
Partecipa con Operette morali al premio letterario dell’Accademia della Crusca, nella speranza di raggiungere una certa indipendenza economica. Ma alla sua opera viene preferita Storia d’Italia di Carlo Botta. Accetta a questo punto l’offerta di alcuni amici toscani che gli garantiscono un prestito annuale da restituire con le future pubblicazioni. Fa ritorno a Firenze dove, la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti sarà ispiratrice del Ciclo di Aspasia, composto dai canti: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. A Firenze Giacomo ritrova l’amico Antonio Ranieri e con lui, unendo le risorse economiche, si trasferiscono a Napoli. È proprio a Napoli, luogo dal clima favorevole alla sua precaria salute, che compone in poesia alcune opere satiriche, fra cui la Palinodia al marchese Gino Capponi e i Paraliponeni della Batracomiomachia, mentre vede ripubblicati nuovamente i Canti e le Operette morali.
Nel 1836 per sfuggire alla minaccia del colera, si trasferisce a Torre del Greco, ospite di un parente dell’amico Ranieri. Alle falde del Vesuvio Giacomo scrive due grandi liriche: La ginestra e Il tramonto della luna.
Anni prima, il padre gli aveva impedito di lasciare Recanati, ora, le condizioni di salute lo trattengono dal tornarvi. Non rivedrà la sua casa, non rivedrà il suo paese.
Ha soltanto 39 anni quando, il 14 giugno 1837, assistito dall’amico Ranieri e dalla sorella di lui Paolina, il Poeta dell’infinito si spegne.
P.B.