Giorgio Bassani nasce il 4marzo l916 a Bologna, dove i genitori, Enrico e Dora Minerbi, si erano temporaneamente trasferiti. La famiglia e ferrarese da parecchie generazioni e appartenente alleata borghesia ebraica. Il padre è medico, pur non avendo mai esercitato, e mantiene il nucleo famigliare con la rendita derivante da alcune proprietà terriere; la madre segue delle lezioni di canto fino al matrimonio. Il nonno paterno Davide Bassani è un ricco commerciante di tessuti, mentre quello materno, Cesare Minerbi, svolge l’attività di primario presso l'ospedale S. Anna. La nonna da parte di padre si chiama Jenny Hannau,.quella materna Emma Marchi, cattolica. Dora ed Enrico hanno modo di conoscersi perché il dottor Minerbi è il medico dei Bassani e si sposano nel 1915. Dopo Giorgio, nascono altri due figli, Paolo e Jenny, che con lui, nell'antica casa signorile di via Cisterna del Follo a Ferrara, vivono un'infanzia e un'adolescenza piuttosto serene. Sempre nella città estense, frequenta il Liceo Classico "L. Ariosto", studiando contemporaneamente il piano: voleva diventare un musicista, ma a diciassette anni, come ricorda la sorella, smette all'improvviso di esercitarsi e si dedica anima e corpo allo studio della letteratura. Compagno di banco degli anni liceali è Lanfranco Caretti che ritroverà anche all'Università. Il suo profitto è molto buono, ma non il migliore della classe: forse è penalizzato da una leggera balbuzie, accentuata da un carattere emotivo, schivo e introverso. Il clima vissuto nel periodo del liceo è narrato in Dietro la porta (1964), in una combinazione equilibrata di componenti reali e finzione romanzesca tipica di tutta la produzione narrativa. L’insegnante che maggiormente influì in questi anni sulla sua formazione è Francesco Viviani, docente di latino e greco, celebre fra gli studenti per la sua severità e la sua intransigenza.
1916 -1933. L'infanzia e l'adolescenza
Giorgio Bassani nasce il 4marzo l916 a Bologna, dove i genitori, Enrico e Dora Minerbi, si erano temporaneamente trasferiti. La famiglia e ferrarese da parecchie generazioni e appartenente alleata borghesia ebraica. Il padre è medico, pur non avendo mai esercitato, e mantiene il nucleo famigliare con la rendita derivante da alcune proprietà terriere; la madre segue delle lezioni di canto fino al matrimonio. Il nonno paterno Davide Bassani è un ricco commerciante di tessuti, mentre quello materno, Cesare Minerbi, svolge l’attività di primario presso l'ospedale S. Anna. La nonna da parte di padre si chiama Jenny Hannau,.quella materna Emma Marchi, cattolica. Dora ed Enrico hanno modo di conoscersi perché il dottor Minerbi è il medico dei Bassani e si sposano nel 1915. Dopo Giorgio, nascono altri due figli, Paolo e Jenny, che con lui, nell'antica casa signorile di via Cisterna del Follo a Ferrara, vivono un'infanzia e un'adolescenza piuttosto serene. Sempre nella città estense, frequenta il Liceo Classico "L. Ariosto", studiando contemporaneamente il piano: voleva diventare un musicista, ma a diciassette anni, come ricorda la sorella, smette all'improvviso di esercitarsi e si dedica anima e corpo allo studio della letteratura. Compagno di banco degli anni liceali è Lanfranco Caretti che ritroverà anche all'Università. Il suo profitto è molto buono, ma non il migliore della classe: forse è penalizzato da una leggera balbuzie, accentuata da un carattere emotivo, schivo e introverso. Il clima vissuto nel periodo del liceo è narrato in Dietro la porta (1964), in una combinazione equilibrata di componenti reali e finzione romanzesca tipica di tutta la produzione narrativa. L’insegnante che maggiormente influì in questi anni sulla sua formazione è Francesco Viviani, docente di latino e greco, celebre fra gli studenti per la sua severità e la sua intransigenza.
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"Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande."
Adriano Olivetti (11 aprile 1901 – 27 febbraio 1960) Siamo già al 28 e non ho fatto ancora niente. Inoltre quella specie di poema che mi girava per la mente ora sfugge di qua e di là. Mi risveglio al mattino, ci penso, e tutto si sprofonda nello squallore acquitrinoso di queste giornate di pioggia. Arranco, arranco, per riguadagnare la strada perduta. “Aspetta! Ferma! Aspetta!” grido ai piedi della salita. Ma le pagine lentamente si sfogliano, molto lentamente, è doveroso ammetterlo, ma non riposano mai. Mai come noi uomini. Si fermano a guardarsi intorno, a accendere una sigaretta, a chiacchierare un poco. Le pagine della vita, le ore, voglio dire, i giorni astronomici e i mesi senza bisogno di stupide metafore, si succedono con grande rapidità, bisogna convenire, a vederli passare con tanta compostezza non si direbbe mai che siano nostri nemici. Vanno adagio, da grandi signori. Ma non si fermano mai, i maledetti, non danno un attimo di respiro, abbiamo un bel correre avanti, predisporre, pianificare, calcoli, progetti. Siamo uomini, ahimè, e ogni tanto dobbiamo fermarci. Fermarci, e ci addormentiamo. Ma così, mentre noi stiamo fermi sul bordo della via sognando strane cose, le ore, i giorni, mesi ed anni ci raggiungono uno per uno, con la loro abominevole lentezza ci sopravanzano, si perdono in fondo alla strada. Poi al mattino ci accorgiamo di essere rimasti indietro, ci mettiamo all’inseguimento.
In questo preciso momento, vogliamo dire volgarmente, finisce la giovinezza. (Dino Buzzati: In quel preciso momento) Da poi che lo ill. ed Ecc. mio signore e padrone mi comanda che io debba domandare, e porre pregio alla mia opera del Perseo, la quale per insino del mese d’aprile del 1554 nella Loggia della piazza di sua Ecc. lasciai scoperta e finita del tutto, Iddio laldato con intera sodisfazione dello universale, di che mai d’altra opera di qualsivoglia maestro per insino a questo dì non v’è notizia nè di tanta sodisfazion, nè da presso di gran lunga, dico che umilmente io priego sua Ecc. che mi doni delle mie fatiche di nove anni tutto quello che al suo santissimo e discretissimo giudizio pare e piace, e quale e’ sia, venendo colla intera sua buona grazia, sarò contentissimo con maggior mia sodisfazione, che domandando, se bene io ne avessi molto più che la mia domanda.
Ora, per non mettere più tempo in mezzo, che troppo lungo è stato per il passato, siccome sforzato da quella per ubbidire, dico, che avendo a fare una tanta opera a ogni altro principe io non la farei per il valore di quindicimila ducati d’oro, e qual si voglia altro uomo non la saprebbe guardare, non che fare. Ma per essere divoto ed amorevole vassallo, e servo di sua ill. Ecc., sarò contentissimo quando a quella gli piaccia di donarmi cinquemila ducati d’oro in oro contanti e cinquemila ne ‘l valsente di tanti beni immobili, perchè questo resto della mia vita io mi sono resoluto di vivere e morire al servizio di quella; e se io gli ho fatto una prima e così bella opera, quest’altra spero di farla maravigliosa, e di lasciarmi e gli antichi e i moderni indietro quanto dal mondo io sarò giudicato, di che tutto ne proviene immortale e laldabile gloria a sua Ill. Ecc. Solo io la scongiuro per il valore e potenzia di Dio, che prestissimo mi spedisca, che tenendomi così mi ammazza; e si ricordi, siccome io gli ho sempre detto, di volergli dare in serbo quel resto del mio povero sussidio che mi era rimasto del mio felicissimo stato in che io mi trovavo, volendo contento correre seco la sua felicissima fortuna. Consideri sua Ecc. se io in sino a questo dì, con le comodità grandi che io avevo con quei barbari, che gran quantità d’oro io arei messo insieme; nonostante questo, io mi contento molto più d’uno scudo con sua Ecc. che di cento da ogni altro principe, sempre pregando Iddio che felicissima la conservi. Firenze, 1554. (da: Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura scritte da' più celebri personaggi dei secoli VX, XVI e XVII di G. G. Bottari e S. Ticozzi - vol. 1) È una splendida giornata, puoi starne certo, anzi, direi che è estate, è impossibile non riconoscere l’estate, lascia che te lo dica, io me ne intendo. Vuoi sapere da cosa lo deduco, oh, beh, è facilissimo, come dire?, basta guardare quel giallo. Come sarebbe a dire? Dunque, stammi bene a sentire, hai presente il giallo? Sì, il giallo, e quando dico il giallo intendo proprio il giallo, che non è il rosso o il bianco, ma proprio il giallo, esattamente giallo. Il giallo, quello là a destra, quella macchia a stella di giallo che si espande sulla campagna come se fosse una foglia, un bagliore, insomma qualcosa di questo tipo, dell’erba seccata dalla calura, mi faccio capire? Quella casa pare proprio che stia sopra il giallo, che sia retta dal giallo. È strano che se ne veda poca, solo un pezzo, mi piacerebbe saperne di più, chissà chi ci abita, magari la signora che sta attraversando il ponticello. Sarebbe interessante sapere dove sta andando, può darsi che stia seguendo la carrozzella, forse il barroccino che si vede vicino ai due pioppi del fondo, dalla parte sinistra. Potrebbe essere vedova, dato che è vestita di nero. E poi ha anche un ombrello nero. Comunque quello le serve per ripararsi dal sole, perché ti ripeto che è estate, non ci sono dubbi. Ma ora vorrei parlare di quel ponte, anzi, chiamiamolo ponticello, è così grazioso, tutto fatto di mattoni, avanza con le fondamenta fino a metà del canale. Sai cosa ti dico? Che la sua grazia consiste in quel marchingegno di legno e corde che lo copre come l’armatura di una pensilina. Sembra un giocattolo per un bambino intelligente, hai presente quei bambini che sembrano degli ometti e che giocano sempre con i meccani o cose del genere, una volta se ne vedeva nelle case perbene, ora forse un po’ meno, comunque hai capito. Ma è tutta un’illusione, perché quel grazioso ponticello che apparentemente ruota con cortesia per lasciar passare i barconi nel canale, secondo me è una trappola bella e buona. La vecchia signora non lo sa, poverina, nemmeno se lo immagina, ma ora muoverà un altro passo e sarà un passo fatale, credi a me, sicuramente metterà il piede su un perfido meccanismo, ci sarà un clic inavvertibile, le corde si tenderanno, le assi sospese a leva si stringeranno come mandibole e lei resterà lì dentro come un topo, nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore tutte le sbarre che uniscono le assi, quelle pale un po’ sinistre, se ci pensi bene, scatteranno per combaciare con esattezza millimetrica e lei, zàcchete, resterà schiacciata come una frittella. Il vetturale non se ne accorgerà neppure, magari è anche sordo, e poi quella signora non gli interessa niente, credi a me, lui ha altro a cui pensare, se è un contadino penserà alle vigne, i contadini pensano solo alla terra, sono abbastanza egoisti, per loro il mondo finisce col campicello; se è un veterinario, perché potrebbe anche essere un veterinario, sta pensando a qualche vacca malata nella fattoria che deve trovarsi là in fondo, anche se non si vede, le vacche sono più importanti delle persone per i veterinari, ognuno fa il suo mestiere a questo mondo, cosa ci vuoi fare, e gli altri che si arrangino. Mi dispiace che tu non abbia ancora capito, ma se ti sforzi sono certo che ci arriverai, tu sei una persona intelligente, non ci vuole poi molto a indovinare, o meglio, forse ci vuole un po’, ma mi sembra di averti dato sufficienti informazioni; ti ripeto, probabilmente devi solo collegare gli elementi che ti ho fornito, ad ogni modo guarda, il museo sta per chiudere, vedo il guardiano che ci sta facendo dei cenni, questi guardiani non li sopporto, hanno sempre una spocchia che non ti dico, ma semmai torniamo domani, tanto anche tu non è che abbia troppe cose da fare, no?, e poi l’impressionismo è affascinante, ah, questi impressionisti, così pieni di luce, di colore, dai loro quadri viene quasi un profumo di lavanda, eh sì, la Provenza… io ho sempre avuto un debole per questi paesaggi, non ti dimenticare il bastone, sennò poi qualche automobile ti investe, l’hai appoggiato qui a destra, un po’ più in là, a destra, ci sei quasi, ricordati, a tre passi sulla nostra sinistra c’è un gradino. (da: I volatili del Beato Angelico: La traduzione - Antonio Tabucchi, Pisa, 23 settembre 1943 – Lisbona, 25 marzo 2012) Se mai io scomparissi
presa da morte snella, costruite per me il più completo canto della pace! Ché, nel mondo, non seppi ritrovarmi con lei, serena, un giorno. Io non fui originata ma balzai prepotente dalle trame del buio per allacciarmi ad ogni confusione. Se mai io scomparissi non lasciatemi sola; blanditemi come folle! Alda Merini, 3 novembre, 1953 [da: Fiore di poesia, ed. Einaudi] Scriverò del nulla. Nulla di nulla. Ci avete mai pensato seriamente e vi siete mai chiesti, cos’è il nulla? Il nulla è esattamente quello che cerco di immaginare.
Guarda, una cometa piove dal nulla, cade sulla Terra e la Terra viene spazzata via dal vento del nulla in piccoli pezzi e immaginate che io sopravviva che voi sopravviviate e cominciamo il nostro viaggio attraverso il nulla. Vi piacerebbe? A me sì se ne potessi essere cosciente. Certo sarebbe una grande esperienza andarsene su e giù e a destra e a sinistra attraverso il nulla e continuare ad andare a zonzo non vedendo nulla tranne che le stelle lontane e non sentendo nulla sotto i piedi, volare attraverso il nulla. Se potessi sopravvivere me lo godrei. Anche se ben presto mi verrebbe fame e vorrei mangiare qualcosa ma non c’è niente, nel nulla, che rientri nell’ambito di qualcosa e così morirei di fame e poi sarei di nuovo a viaggiare nel nulla ma allora non lo saprei più e così non me lo godrei affatto. Perché il godere è una sensazione che fa parte dell’esistenza, come voi sapete, e per godere occorre vivere e tutto il resto, ecc. E dunque il risultato è nulla, nulla, nulla. E presto credo il tutto mi sarebbe addosso e io mi dissolverei presto e poi verrei assorbito dal nulla e diventerei parte del nulla. So che un giorno sarò nulla. (Pensaci davvero, mi dico. Pensaci davvero e considerati nulla.) Un giorno sarò nulla perché farò parte della polvere della Terra che sarà spazzata via dai venti del nulla (non i quattro venti della Terra, ma i mille miliardi di miliardi di venti del nulla) e anch’io sarò spazzato via e volerò attraverso il nulla e sarò nulla. Forse – fra un milione di anni. E sarò nulla. Cerco di pensarci sul serio e di immaginarmi nulla, ma sono troppo vivo per pensarmi nulla e così, anche se so che è inevitabile, mi sento come se tutto dovesse andare avanti per sempre, ma lo so bene. E quando la polvere della Terra sarà spazzata via dai venti del nulla, allora anche le particelle di polvere cominceranno a scindersi e dissolvendosi, emuleranno la grande azione della Terra di dissolversi e si dissolveranno. Poi le particelle delle particelle di polvere si dissolveranno anch’esse e questo processo si ripeterà un milione di miliardi di volte sino a quando anche le particelle non diventeranno così piccole che non saranno molto lontane dall’essere nulla. E poi quando l’eternità finirà, il processo di trasformazione di tutte le particelle della Terra in nulla sarà giunto a compimento. E così posso affermare che l’eternità non avrà mai fine perché è questo che significa. E dunque io la vedo a questo modo: Quando guardo in cielo e vedo il nulla (lo spazio è il nulla) dovrei inginocchiarmi e piangere di gioia di fronte alla meravigliosa perfezione di tanta nullità. Riuscite a immaginare quanti miliardi di eoni deve attraversare il nulla prima di raggiungere lo stadio di nullità? Io riesco a immaginarlo perché ho appena scoperto che la Terrà non sarà mai un nulla completo. (da: Jack Kerouac, Diario di uno scrittore affamato, ed. Mondadori) (Foto: Nicholas Buer) 27 - Insistenza
Un giorno, verso mezzogiorno, salii su di un autobus quasi pieno della linea S. Su di un autobus quasi completo della linea S c’era un giovanotto piuttosto ridicolo. lo salii sullo stesso autobus di costui, di questo giovanotto, salito prima di me su questo stesso autobus della linea S, quasi completo, verso mezzogiorno, portando in testa un cappello che trovai assai ridicolo, io che mi trovavo sullo stesso autobus su cui stava lui, sulla linea S, un giorno, verso mezzogiorno. Questo cappello era avvolto come da una sorta di gallone, di cordoncino intrecciato di tipo militare, e il giovanotto che lo portava, con questa cordicella - o gallone - si trovava sul mio stesso autobus, un autobus quasi pieno perché era mezzogiorno; e sotto questo cappello, il cui nastro imitava una cordicella di tipo militare, si stendeva una faccia seguita da un lungo collo, un lungo, lungo collo. Ah! come era lungo il collo di quel giovanotto che portava il cappello circondato da un cordoncino su un autobus della linea S, un giorno verso mezzogiorno. Si spingevano tutti sull’autobus che ci trasportava verso il capolinea della linea S, un giorno verso mezzogiorno, io e quel giovanotto che teneva un collo lungo sotto un cappello ridicolo. Dagli spintoni che ne conseguivano ne nacque di colpo una protesta, protesta che emanò da quel giovanotto che aveva un collo cosí lungo sulla piattaforma di un autobus della linea S, un giorno verso mezzogiorno. Vi fu un momento di accusa formulata con voce umida di dignità offesa, perché sulla piattaforma di un autobus S un giovanotto aveva un cappello munito di un cordoncino tutto intorno, e un collo lungo; ci fu anche un posto libero di colpo su di quell’autobus della linea S quasi pieno perché era mezzogiorno, posto che subito occupò il giovanotto dal collo lungo e dal cappello ridicolo, posto che egli concupiva perché non voleva farsi spingere su questa piattaforma d’autobus, un giorno, verso mezzogiorno. Due ore dopo lo rividi davanti alla Gare Saint-Lazare, questo giovanotto che avevo notato sulla piattaforma di un autobus della linea S, il giorno stesso, verso mezzogiorno. Era con un camerata della sua risma che gli stava dando un consiglio circa un certo bottone del suo soprabito. L’altro ascoltava con attenzione. L’altro, quel giovanotto che aveva un cordoncino intorno al suo cappello, e che avevo visto sulla piattaforma di un autobus della linea S, quasi pieno, un giorno, verso mezzogiorno. (da:Raymond Queneau, Esercizi di stile, traduzione Umberto Eco, ed. Einaudi) A TUTTE LE DONNE
(Alda Merini) Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso sei un granello di colpa anche agli occhi di Dio malgrado le tue sante guerre per l'emancipazione. Spaccarono la tua bellezza e rimane uno scheletro d'amore che però grida ancora vendetta e soltanto tu riesci ancora a piangere, poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli, poi ti volti e non sai ancora dire e taci meravigliata e allora diventi grande come la terra e innalzi il tuo canto d'amore. (Immagine: Clarity Haynes, "Her There From Here", 2008) In una Roma fredda e allagata, il 19 gennaio 1853 l’opera di Giuseppe Verdi, Il trovatore va in scena al Teatro Apollo. Il successo è strepitoso, gli interpreti straordinari: il tenore Carlo Baucardé (Manrico), il soprano Rosina Penco (Leonora), il mezzosoprano Emilia Goggi (Azucena) e il baritono Goivanni Guicciardi (Conte di Luna). *** Trama: In Biscalia e in Aragona, al principio del secolo XV. Parte I Il duello. Nell`atrio del palazzo dell`Aliaferia gli armigeri attendono il conte di Luna che passa le notti a sorvegliare la dimora di Leonora, principessa di Aragona. Egli ne è innamorato, ma teme che possa giungere Il Trovatore, che egli sa aver colpito il cuore della ragazza. Ferrando, capo degli armigeri racconta ai presenti la vicenda di una zingara che fu bruciata sul rogo per avere stregato il figlio del vecchio conte di Luna; racconta anche come la figlia di lei Azucena, rapì e sacrificò il bambinetto sul rogo per vendetta. E`notte. Nel giardino del palazzo Leonora confida all`amica Ines il proprio amore per il Trovatore finchè le due donne rientrano nei loro appartamenti ove si è nascosto il conte, deciso a parlare con Leonora. Si ode il canto del Trovatore; Leonora avanza per abbraciare l`amato, ma, ingannata dall`oscurità, abbraccia il conte; quando la luna esce dalle nuvole e rischiara la scena, scopre l`errore e si getta ai piedi del Trovatore chiedendo perdono. Pieno d`ira il conte intima al Trovatore di svelare la sua identità; egli è Manrico, un proscritto seguace del ribelle Urgel. Nonostante i tentativi di Leonora di frapporsi, i due si sfidano a duello e Leonora cade svenuta. Parte II La gitana. Nell`accampamento degli zingari, Manrico (che pur rimanendo ferito, ha vinto il duello e graziato il conte) dialoga con la madre Azucena. La zingara gli racconta i fatti passati: per vendicare la madre, ella aveva rapito il figlio del conte, ma, accecata dall`ira l`aveva scambiato per il proprio figlio nel momento di gettarlo nel rogo. La donna inoltre risponde in modo più che elusivo ai ragionevoli dubbi di Manrico sulla propria identità ed anzi gli intima che pensa solo a vendicarla. Un messo reca la notizia che Castellor è stata conquistata dall`esercito di Urgel e che Leonora credendo morto Manrico vuole prendere il velo. Manrico si precipita a cavallo presso il convento. In un luogo di ritiro nelle vicinanze di Castellor il conte è in attesa di scorgere Leonora: ha infatti intenzione di rapirla. Si ode il coro delle religiose. Tra esse è Leonora che dichiara ancora una volta le proprie intenzioni a Ines. Quando il conte, con Ferrando e il seguito, si fa avanti per rapirla, irrompe Manrico con i seguaci di Urgel; costoro disarmano il conte e Manrico si allontana con Leonora. Parte III Il figlio della zingara. Le truppe del conte sono appostate in un accampamento vicino a Castellor. Tra i soldati circola la certezza, che all`indomani, in battaglia, essi vinceranno. Gli armigeri fanno prigioniera una zingara che Ferrando riconosce: è Azucena, colei che ha compiuto il feroce infanticidio. Azucena cerca invano di negare e condotta presso gli sgherri, invoca il soccorso di Manrico. Il conte capisce allora di avere in mano la madre del suo rivale e la possibilità di vendicare il fratello. In una sala adiacente alla cappella in Castellor, Manrico e Leonora si apprestano a celebrare le nozze. Giunge trafelato Ruiz e racconta ai presenti dell`avventura di Azucena. Manrico dichiara a Leonora che Azucena è sua madre e corre in sua difesa. Parte IV Il supplizio. Manrico è rinchiuso nel palazzo dell`Aliaferia. Leonora accompagnata al palazzo da Ruiz, ode l`ultimo addio di Manrico, ma decisa a salvargli la vita, si offre al conte in cambio della libertà dell`amato. Quindi, ottenuto dal conte il permesso di dare personalmente a Manrico l`annuncio della conquistata libertà, si avvia presso la prigione. Mentre il conte gioisce, Leonora succhia il veleno racchiuso in una gemma pur di non cadere nelle mani del conte. Nella prigione Manrico conforta la madre. Raggiunto da Leonora, egli intuisce a quale prezzo ella ha comprato per lui la libertà e accusa la ragazza di tradimento. Ma quando vede in lei gli effetti repentini del veleno, capisce il suo gesto e non gli resta che ricredersi e struggersi nel rimorso. Giunge il conte che comprende di essere stato ingannato da Leonora, che muore. Consegnato Manrico agli armigeri,obbliga Azucena ad assistere all`esecuzione. Ma, al conte sconvolto, ella dichiara: "Egli era tuo fratello. La madre è vendicata". (Fonte: Verdi 200) |
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