Quando il carro di Yankel varcò la soglia famosa, rimanemmo sbalorditi. Buna-Monowitz, coi suoi dodicimila abitanti, era un villaggio al confronto: quella in cui entravamo era una sterminata metropoli. Non «Blocks» di legno a un piano, ma innumerevoli tetri edifici quadrati di mattoni nudi, a tre piani, tutti eguali fra loro; fra questi correvano strade lastricate, rettilinee e perpendicolari, a perdita d’occhio. Il tutto era deserto, silenzioso, schiacciato sotto il cielo basso, pieno di fango e di pioggia e di abbandono.Anche qui, come ad ogni svolta del nostro cosí lungo itinerario, fummo sorpresi di essere accolti con un bagno,quando di tante altre cose avevamo bisogno. Ma non fu quello un bagno di umiliazione, un bagno grottesco-demoniaco-sacrale, un bagno da messa nera come l’altro che aveva segnato la nostra discesa nell’universo concentrazionario, e neppure un bagno funzionale, antisettico, altamente tecnicizzato, come quello del nostro passaggio, molti mesi piú tardi, in mano americana: bensí un bagno alla maniera russa, a misura umana, estemporaneo ed approssimativo.
Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri, era agevole ravvisare, dietro all’aspetto concreto e letterale, una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte della nuova autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera, di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio.
Ci deposero dal carro le braccia robuste di due infermiere sovietiche: «Po malu, po malu!» («adagio, adagio!»); furono le prime parole russe che udii. Erano due ragazze energiche ed esperte. Ci condussero in uno degli impianti del Lager che era stato sommariamente rimesso in efficienza, ci spogliarono, ci fecero cenno di coricarci sui tralicci di legno che coprivano il pavimento, e con mani pietose, ma senza tanti complimenti, ci insaponarono strofinarono, massaggiarono e asciugarono dalla testa ai piedi.
L’operazione andò liscia e spedita con tutti noi, a meno di qualche protesta moralistico-giacobina di Arthur, che si proclamava «libre citoyen», e nel cui subconscio il contatto di quelle mani femminili sulla pelle nuda veniva a conflitto con tabú ancestrali. Ma trovò un grave intoppo quando venne il turno dell’ultimo del gruppo.
Nessuno di noi sapeva chi fosse costui, perché non era in grado di parlare. Era una larva, un ometto calvo, nodoso come una vite, scheletrico, accartocciato da una orribile contrattura di tutti i muscoli: lo avevano deposto dal carro di peso, come un blocco inanimato, e ora giaceva a terra su un fianco, acciambellato e rigido, in una disperata posizione di difesa, con le ginocchia premute fin contro la fronte, i gomiti serrati ai fianchi, e le mani a cuneo con le dita puntate contro le spalle. Le sorelle russe, perplesse, cercarono invano di distenderlo sul dorso, al che egli emise strida acute da topo: del resto, era fatica inutile, le sue membra cedevano elasticamente sotto lo sforzo, ma appena abbandonate scattavano indietro alla loro posizione iniziale. Allora presero partito, e lo portarono sotto la doccia cosí com’era; e poiché avevano ordini precisi, lo lavarono ugualmente del loro meglio, forzando spugna e sapone nel groviglio legnoso di quel corpo; alla fine, lo sciacquarono coscienziosamente, versandogli sopra un paio di secchi d’acqua tiepida.
Charles e io, nudi e fumanti, assistevamo alla scena con pietà e orrore. Mentre una delle braccia era distesa, si vide per un istante il numero tatuato: era un 200 000, uno dei Vosgi. – Bon Dieu, c’est un français! – fece Charles, e si volse in silenzio contro il muro.
Ci assegnarono camicia e mutande, e ci condussero dal barbiere russo affinché, per l’ultima volta della nostra carriera, ci fossero rasi i capelli a zero. Il barbiere era un gigante bruno, dagli occhi selvaggi e spiritati: esercitava la sua arte con inconsulta violenza) e per ragioni a me ignote portava un mitragliatore a tracolla.
«Italiano Mussolini», mi disse bieco, e ai due francesi: «Fransé Laval»; dove si vede quanto poco soccorrano le idee generali alla comprensione dei casi singoli.
Qui ci separammo: Charles e Arthur, guariti e relativamente ben portanti, si ricongiunsero al gruppo dei francesi, e sparirono dal mio orizzonte. Io, malato, fui introdotto nell’infermeria, visitato sommariamente, e relegato d’urgenza in un nuovo «Reparto Infettivi».
Questa infermeria era tale nelle intenzioni, e inoltre perché effettivamente rigurgitava di infermi (infatti i tedeschi in fuga avevano lasciato a Monowitz, Auschwitz e Birkenau solo i malati piú gravi, e questi erano stati tutti radunati dai russi nel Campo Grande): non era, né poteva essere, un luogo di cura perché i medici, per lo piú malati essi stessi, erano poche decine, le medicine e il materiale sanitario mancavano del tutto, mentre avevano bisogno di cure i tre quarti almeno dei cinquemila ospiti del campo.
Il locale a cui venni assegnato era una camerata enorme e buia, piena fino al soffitto di sofferenze e di lamenti.
Per forse ottocento malati, non vi era che un medico di guardia, e nessun infermiere: erano i malati stessi che dovevano provvedere alle loro necessità piú urgenti, e a quelle dei loro compagni piú gravi. Vi trascorsi una sola notte, che ricordo come un incubo; al mattino, i cadaveri nelle cuccette, o abbandonati scomposti sul pavimento, si contavano a dozzine.
Il giorno seguente fui trasferito in un locale piú piccolo, che conteneva solo venti cuccette: in una di queste giacqui per tre o quattro giorni, oppresso da una febbre altissima, cosciente solo ad intervalli, incapace di mangiare, e tormentato da una sete atroce.
AI quinto giorno la febbre era sparita: mi sentivo leggero come una nuvola, affamato e gelato, ma la mia testa era sgombra, gli occhi e gli orecchi come affinati dalla forzata vacanza, ed ero in grado di riprendere contatto col mondo.
Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l’ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente.
Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano piú deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del piú piccolo ed inerme fra noi, del piú innocente, di un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo».
Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola.
Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata. O meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavano in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento.
Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
Henek era un buon compagno, ed una perpetua fonte di sorpresa. Anche il suo nome, come quello di Hurbinek, era convenzionale: il suo nome vero, che era König, era stato alterato in Henek, diminutivo polacco di Enrico, dalle due ragazze polacche, le quali, benché piú anziane di lui di dieci anni almeno, provavano per Henek una simpatia ambigua che presto divenne desiderio aperto. Henek-König, solo del nostro microcosmo di afflizione, non era né malato né convalescente, anzi, godeva di una splendida sanità di corpo e di spirito. Era di piccola statura e di aspetto mite, ma aveva una muscolatura da atleta; affettuoso e servizievole con Hurbinek e con noi, albergava tuttavia istinti pacatamente sanguinari. Il Lager, trappola mortale, «mulino da ossa» per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro pronto, sagace, feroce e prudente.
Nelle lunghe ore che trascorremmo insieme, mi narrò l’essenziale della sua breve vita. Era nato ed abitava in una fattoria, in Transilvania, in mezzo al bosco, vicino al confine rumeno. Andava spesso col padre per il bosco, alla domenica, entrambi col fucile. Perché col fucile? per cacciare? Sí, anche per cacciare; ma anche per sparare ai rumeni. E perché sparare ai rumeni? Perché sono rumeni, mi spiegò Henek con semplicità disarmante.
Anche loro, ogni tanto, sparavano a noi. Era stato catturato, e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia. Gli altri erano stati uccisi subito: lui aveva dichiarato alle SS di avere diciotto anni e di essere muratore, mentre ne aveva quattordici ed era studente.
Cosí era entrato a Birkenau: ma a Birkenau aveva invece insistito sulla sua età vera, era stato assegnato al Block dei bambini, ed essendo il piú anziano e il piú robusto era diventato il loro Kapo. I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas. Henek aveva subito capito la situazione, e da buon Kapo si era «organizzato», aveva stabilito solide relazioni con un influente Häftling ungherese, ed era rimasto fino alla liberazione. Quando c’erano selezioni al Block dei bambini, era lui che sceglieva. Non provava rimorso? No: perché avrebbe dovuto? esisteva forse un altro modo per sopravvivere? Alla evacuazione del Lager, saviamente, si era nascosto: dal suo nascondiglio, attraverso la finestrella di una cantina, aveva visto i tedeschi sgomberare in gran fretta i favolosi magazzini di Auschwitz, e aveva notato come, nel trambusto della partenza, avessero sparso sulla strada una buona quantità di alimenti in scatola. Non si erano attardati a recuperarli, ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati. Molte scatole si erano confitte nel fango e nella neve senza sfasciarsi: a notte, Henek era uscito con un sacco, e aveva radunato un fantastico tesoro di scatole, deformate, appiattite, ma ancora piene: carne, lardo, pesce, frutta, vitamine. Non lo aveva detto al nessuno, naturalmente: lo diceva a me, perché ero suo vicino di letto, e potevo essergli utile come sorvegliante. In effetti, poiché Henek passava molte ore in giro per il Lager, in misteriose faccende, mentre io ero nella impossibilità di muovermi, la mia opera di custodia gli fu abbastanza utile. In me aveva fiducia: sistemò il sacco sotto il mio letto, e nei giorni seguenti mi corrispose una giusta mercede in natura, autorizzandomi a prelevare quelle razioni di conforto che riteneva adatte, come qualità e quantità, alla mia condizione di malato e alla misura dei miei servizi.
Non era Hurbinek il solo bambino. Ce n’erano altri, in condizioni di salute relativamente buone: avevano costituito un loro piccolo «club», molto chiuso e riservato, in cui l’intrusione degli adulti era visibilmente sgradita. Erano animaletti selvaggi e giudiziosi, che si intrattenevano fra di loro in lingue che non comprendevo. Il piú autorevole membro del clan non aveva piú di cinque anni, e si chiamava Peter Pavel. Peter Pavel non parlava con nessuno e non aveva bisogno di nessuno. Era un bel bambino biondo e robusto, dal viso intelligente e impassibile. Al mattino scendeva dalla sua cuccetta, che era al terzo piano, con movimenti lenti ma sicuri, andava alle docce a riempire d’acqua la sua gamella, e si lavava meticolosamente. Spariva poi per tutta la giornata, facendo solo una breve comparsa a mezzogiorno per riscuotere la zuppa in quella stessa sua gamella. Tornava infine per la cena; mangiava, usciva nuovamente, rientrava poco dopo con un vaso da notte, lo collocava nell’angolo dietro la stufa, vi sedeva per qualche minuto, ripartiva col vaso, tornava senza, si arrampicava piano piano al suo posto, sistemava puntigliosamente le coperte e il cuscino, e dormiva fino al mattino senza mutare posizione.
Pochi giorni dopo il mio arrivo, vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole del Kleine Kiepura, la mascotte di Buna-Monowitz. Tutti lo conoscevano a Buna: era il piú giovane dei prigionieri, non aveva che dodici anni. Tutto era irregolare in lui, a partire dalla sua stessa presenza in Lager, dove di norma i bambini non entravano vivi: nessuno sapeva come e perché vi fosse stato ammesso, e ad un tempo tutti lo sapevano fin troppo. Irregolare era la sua condizione, poiché non marciava al lavoro, ma risiedeva in semiclausura nel Block dei funzionari; vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto.
Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno; e di sotto il viso pallido, dai tratti non privi di grazia infantile, balzava in avanti una enorme mandibola, piú prominente del naso. Il Kleine Kiepura era l’attendente e il protetto del Lager-Kapo, il Kapo di tutti i Kapos.
Nessuno lo amava, salvo il suo protettore. All’ombra dell’autorità, ben nutrito e vestito, esente dal lavoro, aveva condotto fino all’ultimo giorno un’esistenza ambigua e frivola di favorito, intessuta di pettegolezzi, di delazioni e di affetti distorti: il suo nome, a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi piú clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS. Perciò tutti lo temevano e lo fuggivano.
Ora il Lager-Kapo, destituito di ogni potere, era in marcia verso occidente, e il Kleine Kiepura, convalescente di una leggera malattia, aveva seguito il nostro destino.
Ebbe un letto e una scodella, e si inserí nel nostro limbo. Henek ed io gli rivolgemmo poche e caute parole, poiché provavamo verso di lui diffidenza e una pietà ostile; ma quasi non ci rispose. Tacque per due giorni: se ne stava in cuccetta tutto raggomitolato, con lo sguardo fisso nel vuoto e i pugni serrati sul petto. Poi prese ad un tratto a parlare, e rimpiangemmo il suo silenzio. Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall’alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti.
– Alzarsi, porci, avete capito? Rifare i letti, ma presto: pulirsi le scarpe. Tutti adunata, controllo dei pidocchi, controllo dei piedi. Mostrare i piedi, carogne! Di nuovo sporco, tu, sacco di m….: fai attenzione, io non scherzo.
Ancora una volta che ti pesco, e te ne vai in crematorio –. Poi, urlando alla maniera dei militari tedeschi : – In fila, coperti, allineati. Giú il colletto: al passo, seguire la musica. Le mani sulla cucitura dei pantaloni –. E poi ancora, dopo una pausa, con voce arrogante e stridula: – Questo non è un sanatorio. Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino.
Se ti piace è cosí; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico. Il Kleine Kiepura sparí dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l’infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada.
Le due ragazze polacche, che svolgevano (in realtà assai male) le mansioni di infermiere, si chiamavano Hanka e Jadzia. Hanka era una ex Kapo, come si poteva dedurre dalla sua chioma non rasata, e anche piú sicuramente dai suoi modi protervi. Non doveva avere piú di ventiquattro anni: era di media statura, di carnagione olivastra e di lineamenti duri e volgari. In quella atmosfera di purgatorio, piena di sofferenze passate e presenti, di speranze e di pietà, passava le giornate davanti allo specchio, o a limarsi le unghie delle mani e dei piedi, o a pavoneggiarsi davanti all’indifferente e ironico Henek.
Era, o si considerava, piú elevata in grado di Jadzia; ma in verità bastava ben poco per superare in autorità una creatura cosí dimessa. Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall’interno, sconvolto da una segreta continua tempesta.
Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l’uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l’uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio. Il suo obiettivo primo e principale era naturalmente Henek: ma Henek non la voleva, la scherniva, la insultava. Tuttavia, da quel ragazzo pratico che era, non si era disinteressato del caso, e ne aveva fatto cenno a Noah, suo grande amico. Noah non abitava nella nostra camerata, anzi, non abitava in nessun luogo e in tutti. Era un uomo nomade e libero, lieto dell’aria che respirava e della terra che calcava.
Era il Scheissminister di Auschwitz libera, il Ministro delle latrine e pozzi neri: ma nonostante questo suo incarico da monatto (che d’altronde egli aveva assunto volontariamente) non c’era nulla di turpe in lui, o se qualcosa c’era, era sopraffatto e cancellato dall’impeto del suo vigore vitale. Noah era un giovanissimo pantagruele, forte come un cavallo, vorace e salace. Come Jadzia voleva tutti gli uomini, cosí Noah voleva tutte le donne: ma mentre la tenue Jadzia si limitava a tendere intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio, Noah, uccello d’alto volo, incrociava dall’alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all’ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d’oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d’amore sembravano uragani. Era l’amico di tutti gli uomini e l’amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare.
Frau Vitta, anzi Frau Vita, come tutti la chiamavano, amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno. Frau Vita, dal corpo disfatto e dal dolce visochiaro, era una giovane vedova di Trieste, mezza ebrea, reduce da Birkenau. Passava molte ore accanto al mio letto, parlandomi di mille cose a un tempo con volubilità triestina, ridendo e piangendo: era in buona salute, ma ferita profondamente, ulcerata da quanto aveva subito e visto in un anno di Lager, e in quegli ultimi orribili giorni. Infatti era stata «comandata» al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa.
Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi ; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera, quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario.
Fu Frau Vita a chiudere gli occhi a André e ad Antoine. Erano due giovani contadini dei Vosgi, entrambi miei compagni dei dieci giorni di interregno, entrambi ammalati di difterite. Mi sembrava di conoscerli da secoli.
Con strano parallelismo, furono colpiti simultaneamente da una forma dissenterica, che presto si rivelò gravissima, di origine tubercolare; e in pochi giorni la bilancia del loro destino diede il tracollo. Erano in due letti vicini, non si lamentavano, sopportavano le coliche atroci a denti stretti, senza comprenderne la natura mortale; parlavano solo fra di loro, timidamente, e non chiedevano soccorso a nessuno. André fu il primo a partire, mentre parlava, a metà di una frase, come si spegne una candela. Per due giorni nessuno venne a rimuoverlo: i bambini lo venivano a guardare con curiosità smarrita, poi continuavano a giocare nel loro angolo.
Antoine rimase silenzioso e solo, tutto chiuso in una attesa che lo trasfigurava. Il suo stato di nutrizione eradiscreto, ma in due giorni subí una metamorfosi struggente, come risucchiato dal vicino. Insieme con Frau Vita riuscimmo, dopo molti tentativi vani, a far venire un dottore: gli chiesi, in tedesco, se c’era qualcosa da fare, se c’erano speranze, e gli raccomandai di non rispondere in francese. Mi rispose in yiddisch, con una frase breve che non compresi: allora tradusse in tedesco: «Sein Kamerad ruft ihn», il suo compagno lo chiama. Antoine obbedí al richiamo quella sera stessa. Non avevano ancora vent’anni, ed erano stati in Lager un solo mese.
E venne finalmente Olga, in una notte piena di silenzio, a portarmi la notizia funesta del campo di Birkenau, e del destino delle donne del mio trasporto. La attendevo da molti giorni: non la conoscevo di persona, ma Frau Vita, che malgrado i divieti sanitari frequentava anche i malati degli altri reparti, in cerca di pene da alleviare e di colloqui appassionati, ci aveva informati delle rispettive presenze, e aveva organizzato l’illecito incontro, a notte fonda, mentre tutti dormivano. Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell’astigiano con la sua famiglia, e qui era stata internata; apparteneva quindi a quella ondata di varie migliaia di ebrei stranieri che avevano trovato ospitalità, e breve pace, nella paradossale Italia di quegli anni, ufficialmente antisemita. Era una donna di grande intelligenza e cultura, forte, bella e consapevole; deportata a Birkenau, vi aveva sopravvissuto, sola della sua famiglia. Parlava l’italiano perfettamente; per gratitudine e per temperamento, si era trovata presto amica delle italiane del campo, e piú precisamente di quelle che erano state deportate col mio convoglio. Mi raccontò la loro storia con gli occhi rivolti a terra, a lume di candela. La luce furtiva sottraeva alle tenebre solo il suo viso, accentuandone le rughe precoci, e mutandolo in una maschera tragica.
Un fazzoletto le copriva il capo: lo snodò a un tratto, e la maschera si fece macabra come un teschio. Il cranio di Olga era nudo: lo copriva solo una breve peluria grigia. Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito.
Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all’ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, cinque sole erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate.
Da: LA TREGUA
Primo Levi
ed Einaudi